Si ritorna sempre dove si è stati bene. Almeno se la vita lo permette. Ricongiungersi col primo vero amore calcistico dopo tanto tempo fa sentire spaesati e nostalgici come da nessun’altra parte. Lo stesso stadio, le stesse emozioni oltre la categoria, le stesse persone – o quasi, perché il tempo vola inesorabile – si uniscono in un gigantesco turbine che dà vita a novanta minuti di preghiera, ma non in religioso silenzio. Tornare al “Marco Salmeri” – e Dio solo sa quanto fa male chiamare così il Grotta – per spingere undici ragazzi alla vittoria, nonostante tutto, è un rito magico che trasuda di profonde tradizioni.
Ancora una volta ieri è andata in scena la sfida tra la volontà di far spiccare imperioso il volo dell’aquila e il grigio materialismo di chi, dopo aver speso una caterva di denaro, è costretto a fare i conti con l’assenza di fondamenta storiche per affrontare determinate compagini. “So’ ragazzi” direbbero nella Capitale ed effettivamente è vero: gli undici milazzesi scesi in campo ieri erano praticamente dati per spacciati contro la corazzata della greco-siceliota Taormina. Altresì spesso si dimentica un fattore fondamentale: il milazzese – uomo di mare – è abituato a imprese storiche che creano un solco indelebile.
Ieri al “Marco Salmeri” è sembrato di rivedere in scena la beffa di Buccari orchestrata e operata dall’eroico Luigi Rizzo insieme al Vate. Tra defezioni e problemi vari, tutti i mamertini hanno deciso di osare l’inosabile in doppia inferiorità numerica. È bastata una preghiera all’ultimo minuto, un gesto perfetto a centrocampo del nuovo arrivato Rossomando per permettere al derviscio Kari di insaccare la palla in rete e mandare in estasi i suoi adepti. Perché ogni gol è un pizzico di luce che abbaglia il gravoso tunnel della classifica di destra. Alla funivia sopra gli spalti, noi preferiamo l’azzurro del mare dove si perdono tanti palloni e lo sguardo severo del gigante Polifemo che protegge gli ultràs.
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